L’industriale palermitano, dopo aver ricevuto alcune “attenzioni”, il 10 gennaio del 1991 scrisse sul Giornale di Sicilia una lettera aperta intitolata “Cari estorsori non vi pago” con la quale rendeva pubblico il suo rifiuto di pagare il pizzo. In aprile, attraverso la trasmissione televisiva di Michele Santoro “Samarcanda”, il coraggio e la coerenza dell’imprenditore vennero conosciuti dal grande pubblico. Il 29 agosto dello stesso anno, alle 7 e 30 di mattina, davanti casa, mentre si avviava alla sua fabbrica, Libero Grassi venne ucciso da quattro colpi di pistola. Fu subito chiaro che l’omicidio maturò nel clima di solitudine e di isolamento in cui l’imprenditore si era trovato dopo la sua coraggiosa denuncia. Fu, altresì, chiaro che Libero era diventato un esempio assai pericoloso per la mafia alla luce di quanto, nello stesso periodo, pur se in una Sicilia diversa, accadeva ad appena 150 chilometri di distanza. Il fatto che a Capo d’Orlando un gruppo di imprenditori avesse dato vita ad un’associazione antiracket individuando così lo strumento per collaborare con le istituzioni in una situazione di sicurezza e che proprio in quelle settimane d’estate, per la prima volta in Italia, l’associazione si fosse costituita parte civile contro 21 mafiosi all’udienza preliminare del 31 luglio 1991, con notevole rilancio mediatico, tutto ciò rendeva Libero Grassi un esempio eversivo. E se anche a Palermo fosse nata un’associazione? E se, con Libero, altri imprenditori si fossero schierati seguendo l’esempio di Capo d’Orlando? E se Libero fosse diventato il leader dell’intero movimento di rivolta? Come viene scritto in sentenza, per la mafia il timore era che Libero Grassi “alla lunga avrebbe potuto in ipotesi trovare proseliti o raccordarsi con altre organizzazioni antiracket”. Per Cosa nostra l’omicidio fu un investimento che nell’immediato si rivelò efficace: infatti, per tanti anni, almeno sino al 2006-7, sono stati pochissimi gli imprenditori che hanno scelto di opporsi alle richieste di pizzo.Il tema del racket e dell’antiracket a Palermo non ha mai riscosso una particolare “simpatia”. Per più di un decennio vi è stato un atteggiamento costante nell’opinione pubblica e, a volte, anche tra gli addetti ai lavori, sono state rare e isolate le eccezioni. L’imponente reazione della società civile all’indomani delle stragi del 1992 non ha neanche sfiorato questo mondo imprenditoriale e, nonostante concreti, e prima d’allora mai visti risultati nell’azione di contrasto, nessuna reazione ha visto coinvolti gli operatori economici assuefatti ai condizionamenti mafiosi. E’ in questo contesto che Addiopizzo ha compiuto il “miracolo” rendendo centrale nel dibattito pubblico un tema sempre tenuto in sordina. Il racket, da un lato, è sempre stato argomento “rimosso” perché “specchio” (ved.) della borghesia palermitana costretta a riconoscere la propria identità “convivente”. Dall’altro lato, la strategia di Cosa nostra ai tempi di Provenzano, attenta a evitare radicalizzazioni e conflitti, presentava un pizzo meno oppressivo, come il semplice costo per essere legittimati a restare sul mercato, con una relativa tolleranza per i riottosi e con richieste “accettabili”. Purtroppo l’antiracket tornerà a confrontarsi con altri omicidi di imprenditori, a partire da quella terribile settimana del novembre 1992 quando a distanza di pochi giorni vengono uccisi a Foggia Giovanni Panunzio e a Gela Gaetano Giordano, entrambi in situazioni di solitudine e di isolamento.